GIRO AUTOMOBILISTICO di SICILIA del 1956 (Dino Caldarera)

Quegli oltre 1000 chilometri lungo il perimetro della Sicilia

Il giro automobilistico di Sicilia si svolgeva sin dal lontano 1912 (la prima edizione fu disputata nei giorni 25 e 26 maggio di quell’anno), prendendo le mosse dal cortile del palazzo del Duca di Villarosa. Nel corso degli anni sarebbe diventato un avvenimento di grande rilevanza sportiva, nazionale e internazionale.

La partenza avveniva da Palermo a mezzanotte e, attraverso strade strette, dossi e cunette, passando per paesi e città, fra due ali di folla inneggianti i piloti locali, dopo oltre mille chilometri si concludeva nello stesso giorno a Palermo, in Piazza Politeama da dove era partito.

Il primo anno si corse su un tracciato di 965 km poi impiegato sino all’edizione del 1914 compresa; la gara durò più di 24 ore e i vincitori raggiunsero una media di “quasi” 43 chilometri orari. L’equipaggio Snipe-Pedrini su Scat impiegò 24h37’39” per coprire l’intera distanza. Era stato un buon risultato che aveva portato tra le strette e mal tenute strade siciliane una ventata di modernismo ed entusiasmo, con l’automobile che diventava simbolo del progresso sociale, industriale e culturale dell’intera isola. Un anno più tardi, il vincitore Felice Nazzaro su Nazzaro portò la media a oltre 54 km/h tagliando il traguardo sotto le 20 ore di gara (19h18’40” per la precisione). Ancor più significativo fu l’abbassamento dei tempi nel 1914 quando Ceirano su Scat effettuò il periplo della Sicilia, su una distanza invariata rispetto ai due anni precedenti, in appena 16 ore e 51’, come dire quasi otto ore in meno del 1912 !

Il contatto dei Siciliani con i piloti, avventurosi, nobili, leggendari personaggi, diede un’autentica scossa a quel popolo, svegliando le loro coscienze sopite da secoli di torpore. Vincenzo Florio fu il Nume propiziatorio, l’ideatore, il trascinatore. Dietro di lui un esercito di volontari, stradini, manovali, organizzatori, trombettieri, meccanici, sindaci e semplici cittadini di tutti i paesi si mossero mirando unicamente al successo di quella manifestazione unica al mondo.

Dopo un lungo intervallo dovuto anche alla Grande Guerra, il Giro riprende con la IVa edizione del 1928 vinta da Costantino Magistri su Alfa Romeo 6C 1500S con un tempo di 16h29’10” alla rispettabile media di oltre 63 km/h.

Il Giro andò quindi avanti con le edizioni del 1929-’30 e 31 che videro la bella “tripletta” messa a segno da Archimede Rosa (nel 1930 e nel 1931 in coppia con quel Giuseppe Morandi con cui aveva vinto nel 1927 la prima edizione della Mille Miglia) sempre al volante dell’OM 665S.

Ancora una lunga pausa e poi, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, il Giro di Sicilia riprese con la VIIIa edizione del 3-4 aprile 1948, valevole anche per la Targa Florio, vinta dall’equipaggio Igor Troubetzkoy/Clemente Biondetti su Ferrari 166 S con il tempo di 12 ore e 10’ alla media di 88,886 km/h; alle loro spalle si piazzò l’equipaggio composto da Taruffi-Rabbia su Cisitalia 202, seguiti dall’altra vettura analoga di Macchieraldo-Savio.

Il periodo compreso fra il 19 marzo 1949 e il 14 aprile 1957 vide l’affermarsi di piloti di fama internazionale e macchine via via sempre più preparate o costruite per affrontare la lunga maratona siciliana. In quel volgere di anni, le vetture della Casa di Maranello furono capaci di aggiudicarsi ben sette di quelle nove edizioni. Solo l’Alfa Romeo, nel 1950, e la Lancia, nel 1954, seppero interrompere l’indiscussa supremazia delle vetture marchiate con il Cavallino rampante. Ma fra le Case protagoniste di quegli anni non si possono certo dimenticare né la Lancia (furono ben tre le Aurelia B20 piazzatesi subito alle spalle dei vincitori Marzotto-Marini al Giro del ’52 e fu sempre l’Aurelia del piemontese Gino Valenzano in coppia con il valdostano Sergio Ramella a conquistare il secondo posto nel 1953) né la Maserati. La “storica” antagonista della Ferrari fu grande protagonista nelle edizioni fra il 1954 e il 1957 con piloti del calibro di Luigi Musso, Piero Taruffi e Giorgio Scarlatti.

Nell’ultima edizione di velocità dell’ormai grande classica siciliana, quella del 1957, al barone belga Olivier Gendebien su Ferrari 250 GT bastarono appena 10h5’21’’ per coprire gli oltre mille chilometri del percorso e per aggiudicarsi la gara dopo un entusiasmante duello con la Maserati 300S di Piero Taruffi, la “Volpe d’Argento”.

Per l’automobilismo italiano, il periodo compreso fra l’immediato dopoguerra e la metà degli anni Cinquanta fu un’autentica età dell’oro: Ferrari, Maserati, OSCA, Alfa Romeo, Lancia, Stanguellini, furono Case costruttrici capaci di dominare sia su strada, sia in circuito, in Italia e all’estero.

D’altra parte, i marchi tedeschi Porsche, BMW e Mercedes-Benz, impegnati nella difficile ricostruzione del loro Paese, cercarono di tener testa alle nostre automobili ma con non poche difficoltà. Erano tempi di meccanica pura, dove “l’artigiano motorista”, il mago del carburatore di turno, riusciva, con la propria genialità, a trovare soluzioni sempre più ardite, più estreme, arrivando ad ottenere risultati impensabili da motori di media cilindrata.

I francesi erano invece presenti fra le piccole cilindrate con le Dyna Panhard e le Renault 4CV. Negli anni Cinquanta l’automobile era in pieno sviluppo e le corse su strada costituivano un severo collaudo ma anche un formidabile mezzo di diffusione per le novità apportate dalle varie Case costruttrici, oltre che un grande veicolo d’immagine e di promozione con un risultato economico, diciamo, un ritorno commerciale, davvero significativo.

Al Giro di Sicilia erano più di 200 i concorrenti alla partenza ma ne arrivavano al traguardo circa la metà. Quegli oltre 1000 chilometri erano percorsi per un terzo di notte, su strade che proprio grazie allo svolgimento di una gara automobilistica, se pur tortuose, difficili, mal tenute, ogni anno venivano rifatte con una manutenzione accurata che garantiva sempre un generale miglioramento senza il quale la situazione sarebbe progressivamente peggiorata con il passare del tempo.

Al Giro di Sicilia partecipavano i migliori stradisti dell’epoca, da Piero Taruffi a Gigi Villoresi, da Tazio Nuvolari a Clemente Biondetti, e poi Peter Collins, Eugenio Castellotti, , Luigi Musso il “campionissimo” Juan Manuel Fangio, sino ai fratelli Marzotto e a tanti altri.

Chi avesse partecipato al Giro avrebbe acquisito un “Titolo Speciale” che non esisteva nell’elenco di quelli nobiliari né in quelli professionali di arti e mestieri, ma certamente figurava tra quei titoli che fanno la gloria e indicano coraggio, passione e valore; ecco, questo significava prendere parte al Giro di Sicilia! In altre parole, il pilota siciliano che vi avesse partecipato anche una sola volta, diventava “il corridore”. Nel paese d’origine, o dove viveva, sarebbe stato sempre additato, nominato come “u currituri!” Così, Tanu Grattia era Tanu “u currituri”; poteva essere Cavaliere, Dottore, Ingegnere, Barone, Conte, Marchese, tutto questo, ma al titolo si faceva seguire quell’altro, più importante, che ne completava la personalità, il rango, il coraggio, “u currituri” appunto!

Molti piloti venivano dalle principali città siciliane e del continente; oltre metà dei partecipanti erano siciliani, di Palermo per la maggior parte, anche nobili, Principi, Marchesi e Baroni. Il Barone Bordonaro, il Barone La Motta con il suo caro amico principe Raimondo Lanza di Trabia, nipote di Vincenzo Florio (cui si deve la nascita della famosa Targa Florio e del Giro di Sicilia), il barone Musumeci di Catania, e tanti altri di Messina, Trapani, tutti personaggi dalle notevoli risorse finanziarie. Per questo, nei piccoli paesi in provincia, non si trovava mai nessuno che fosse in grado di partecipare e sempre alto restava il desiderio di avere almeno un “compaesano”, una persona che si conoscesse al cui passaggio si potesse esclamare, dopo aver controllato il numero sul cofano motore e sulle fiancate della vettura: “Talè, talè! (guarda, guarda), Tanu Grattia è”, “Talè! Talè! Stefanu Ginola è!” E batter le mani e avvisare gli spettatori lungo il percorso per tutti i corridori che sarebbero sopraggiunti dopo, lungo la strada, con quel mezzo rapido, veloce che si chiamava “Radio Fante”, dell’arrivo del beniamino compaesano. In tempo reale succedeva che, all’avvicinarsi del rombo d’un motore, subito uno squillo di tromba del miglior trombettiere della banda cittadina,”comandato” al nobile compito di vedetta, avvertiva il paese dell’arrivo imminente d’un concorrente.

Se i concorrenti erano due o anche tre, altrettanti squilli partivano dalla Ia tromba, ed immediatamente un secondo trombettiere, posto poco dopo, a circa 1 Km dal primo, verso l’ingresso del paese, ripeteva il suono con la sua tromba, avvisando i paesani che, uscendo dai bar, aperti tutta la notte, dalle stanze e dai terrazzi illuminati a giorno ove avevano trascorso la notte tra cuddiruni, sfincioni, arancini, cannoli e cassate.

Vi erano posizionate almeno 4-5 trombe lungo la strada, prima dell’ingresso in paese, per avvisare dell’arrivo delle auto, e questo creava tensione per l’attesa sulla strada principale che era la nazionale statale n° 115. Ogni squillo di tromba, in quelle notti stellate, miti di maggio, faceva sussultare e tutti si accalcavano lungo i margini della strada aspettando il passaggio dei corridori che piombavano d’impeto transitando veloci tra due ali di folla. Erano momenti infiniti, sembravano interminabili. Si controllava dall’elenco dei concorrenti, pubblicato sulle pagine del “Giornale di Sicilia” del giovedì e venerdì precedenti la corsa, il numero di gara, il paese, la città o la nazione d’origine dell’equipaggio.

Il primo trombettiere era posizionato a circa 1 chilometro prima dell’ingresso in paese, poi, via via, tutti gli altri, e il pubblico ai margini delle strette strade, in mezzo alle case. Quindi ecco finalmente giungere il rombante frastuono delle prime auto, nella notte. Il primo passaggio avveniva verso le 4.00 del mattino; erano le piccole cilindrate, le Topolino, le 600 Abarth, le Dyna Panhard, le Isetta, e, a seguire, le 1100 Fiat TV, le Alfa Romeo Giulietta e 1900, le Lancia Aurelia; quindi, verso l’alba, le Sport. Le prime erano le 750 cc, automobili costruite “quasi a mano” da geniali, valenti artigiani che realizzavano complessi telai saldando fra loro un’innumerevole quantità di tubi di vario diametro, sui quali poi venivano alloggiati cambi e motori di altre vetture. Le chiamavano “barchette”: basse, scomode, con abitacoli stretti, buoni per due persone ma di piccola statura ed esile corporatura. Quelle autentiche “trappoline”, una volta lanciate a tutta velocità sulla strada, con le loro esili ruote e soprattutto prive di tetto, sparavano acqua, polvere e fango a mitraglia sui poveri piloti, ancorati a esili sedili, annegati nella lamiera.

I motori erano più rombanti, alcuni assordanti e scandivano, verso la fine dei passaggi, l’arrivo dei bolidi, dei Prototipi. Questi sopraggiungevano in un attimo dopo lo squillo della tromba, a gran velocità: si doveva stare attenti perché ti aggredivano all’improvviso, con l’urlo lacerante del motore e un odore misto di gomma bruciata, benzina e olio di ricino combusto, una miscela inebriante che ti accendeva dentro, e centinaia di cavalli imbizzarriti, domati sotto un cofano rosso ti sfrecciavano pericolosamente vicino, sfiorandoti. Allora ti sentivi svuotato, privato di qualcosa che aspettavi da tempo, che avevi sognato e che ti sfuggiva passandoti accanto.

Dall’alba in poi, col chiarore del giorno, e lo spuntar del sole, quel sole siciliano mattutino che ti dà il buongiorno, appena tiepido già nel mese di maggio, potevi scorgere il viso dei piloti calati negli abitacoli delle Sport; soprattutto nei tornanti e nelle curve strette li potevi vedere bene, qualcuno te lo immaginavi, anche per averlo visto in fotografia sul giornale.

Dava una strana sensazione vederli “dal vero”: erano calmi, freddi, eleganti nella postura, con le mani ben salde sul volante, le braccia distese, il viso annerito dalla polvere e dai vapori di benzina misti all’olio; qualcuno portava un fazzoletto o un foulard davanti alla bocca, gli occhialoni incollati al viso che disegnavano una maschera nera di polvere e fumi di scarico.

Assorti com’erano, certo non si accorgevano di te, e il solo movimento che talvolta si concedevano era quello di mimare leggermente con la testa, un po’ a destra, un po’ a sinistra, la piega delle curve, come il pittore che, con lo sguardo e la testa segue il percorso del pennello sulla tela. Anche i piloti, come si suole dire, accompagnavano l’andamento della curva nel suo sviluppo con piccole ma decise correzioni apportate dalle mani, spesso piagate per le lunghe ore di guida, sul volante.

Questo loro sparire in un attimo, all’improvviso, dopo il rapido passaggio, ci faceva sentire orfani di qualcosa, di qualcuno che avremmo voluto vedere, in carne ed ossa e stringergli la mano dicendogli: “Mizzica! Che bravo! Che curva hai preso! Piena! l’hai accompagnata con una leggera derapata, giusto giusto quanto ci voleva !”

Erano passati e non li avremmo più rivisti: spariti dietro una curva o dopo un dosso, per sempre!

Anche per questo ci mancava in paese uno dei “Nostri”, sì, insomma, uno di Porto Empedocle che avesse partecipato, almeno una volta al giro di Sicilia. E dire che bravi “piloti” ce n’erano: “Pippo Pedone, Michele Collina, Enzo Fogas, Turi Gambacorta, Stefano Ginola.

Poi, finalmente, arriva il Giro di Sicilia del 1956 che vede alla partenza diversi “compaesani”, o meglio, “vicini di paese”: Pasquale Tacci da Sciacca, Alfonso Vella e Rosario Montalbano, questi ultimi entrambi di Ribera. A quella che sarebbe stata la penultima edizione di velocità, prendevano parte le più forti scuderie e i piloti più blasonati dell’epoca: da una parte, Ferrari, Maserati, Mercedes-Benz, OSCA, Stanguellini ma anche Alfa Romeo, che portava al debutto la Giulietta Sprint con numerosi equipaggi, e la Giulietta scoperta con lo Spider sperimentale affidato allo storico collaudatore Consalvo Sanesi; inoltre “gente” del calibro di Peter Collins, Umberto Maglioli, Piero Taruffi e Olivier Gendebien.

Gli ultimi giorni prima della gara, lungo tutto il percorso erano stati completati i preparativi per il passaggio dei concorrenti. L’ordine pubblico era garantito da numerose pattuglie di tutte le armi, Guardie Municipali in primis con l’uniforme tirata a lucido, per evitare che il pubblico, per il troppo entusiasmo, invadesse le strette strade cittadine.

Particolarmente pericoloso, ma nello stesso tempo eccitante, era il passaggio di un corridore siciliano, un “compaesano” come i già citati Rosario Montalbano, Pasquale Tacci e Alfonso Vella, idoli della provincia di Agrigento. Lungo il breve rettilineo di Porto Empedocle, circa 700 metri, la gente si accalcava ai bordi dei marciapiedi, formando uno stretto passaggio attraverso il quale le vetture sfrecciavano a più di cento all’ora.

Ricordo benissimo il passaggio di Alfonso Vella al volante della Fiat 8V Zagato numero 236. Era già l’alba, le 5,57 per la precisione, ed era il primo concorrente della categoria Gran Turismo, classe 2000 cc; nel tratto Palermo-Trapani-Agrigento aveva già superato altri equipaggi della sua stessa classe portandosi in vetta alla classifica; tutti aspettavamo il suo passaggio da un momento all’altro.

L’ingresso in paese era alla fine di un rettilineo di qualche chilometro inframmezzato da curve piane. Si arrivava veloci in curva, piena sinistra, dove era sistemato un cartello-freccia che indicava “Agrigento”, orientato però quasi a 90 gradi che induceva in errore chi non conosceva il tracciato. Il concorrente di turno, a quel punto, “chiudeva” troppo la curva a sinistra trovandosi davanti al muso i giardini comunali con il Monumento ai Caduti .

 Al malcapitato non restava che prodursi in una brusca frenata, un repentino veloce controsterzo e, raddrizzata la vettura, lanciarsi a tutto gas per via Roma sempre fra due ali di folla.

Fortunatamente i nostri beniamini quel tratto e quella curva la conoscevano bene. Era la curva tra il Monumento ai Caduti e il palazzo della Scuola Elementare, dall’imponente facciata ornata di alte finestre, dove il giovane Pirandello aveva frequentato sino alla Va classe. Quella curva era situata all’ingresso di Porto Empedocle e i piloti vi sfrecciavano con perizia e maestria mettendo in pratica tutto il loro ardimentoso valore e dando spettacolo! Qualcuno, invero, preso dall’eccessiva foga, rischiava di finire dentro il giardino del Monumento, tra filo spinato e alti ficus, o peggio, direttamente sulla scalinata della scuola.

E fu così che alle 5,57 di domenica 8 aprile 1956, la Fiat 8V Zagato n. 236, annunciata da tre fortissimi squilli di tromba, arrivò a tutta velocità da via Cannelle, all’inizio di via Roma, nei pressi della famosa curva. Con i fari accesi e con un forte stridore di gomme sull’asfalto, la macchina s’inclinò anteriormente, il muso quasi a terra, piegandosi tutta sul fianco destro. Incollata sull’asfalto, puntò il muso verso via Roma. Fu tale lo stridere delle gomme, il rumore della cambiata e il ruggito possente del motore 8V, che i due Vigili Urbani di servizio in quel punto se la diedero a gambe mettendosi velocemente al sicuro; gli altri spettatori e due cani randagi di razza mista arabo-normanna, scapparono lontano verso il Porto. La Fiat 8V imboccò sicura via Roma percorrendola in un lampo e proseguendo tra due ali di folla impazzita per la gioia. Forte dei suoi cento e passa cavalli, l’8V di Vella piombò sulla curva successiva, fra due file di case, all’inizio di una ripida salita, così detta della “catena”. In quel punto c’era uno striscione in tela bianca, probabile residuo d’un vecchio lenzuolo della nonna, con scritto “FORZA Ferrari”; un altro, più avanti, recava: “W Taruffi – W Maserati”. Il nostro “compaesano” scorse a quel punto da lontano i Templi di Agrigento, immobili e maestosi da millenni, testimoni di eventi secolari, che lo aspettavano per quell’impresa che sarebbe passata anch’essa alla storia.

Vella giunse a Palermo al 6° posto assoluto vincendo la sua categoria Gran Turismo 2000 cc dopo 11h14’11’’ , alla non trascurabile media di 96,115 km/h.

Sulla stessa curva, un altro siciliano di “manico forte” ebbe minor fortuna. Pasquale Tacci con l’Alfa Romeo 1900 Super n. 248 conosceva bene la strada e con troppa foga e sicurezza arrivò a forte velocità, producendosi in una terribile sbandata, salendo con la ruota anteriore sinistra sul marciapiede adiacente al monumento ai caduti.

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Fu svelto Tacci: dopo una brusca inchiodata, grazie ai potenti freni dell’Alfa, effettuò un rapido controsterzo, diede gas con violenza e uscì di forza da quella difficile situazione. Sino allora era stato in testa alla sua classe Turismo 2000 .

Purtroppo, a causa di quella forte botta all’avantreno fu poi costretto al ritiro. 

Fu quella una domenica felice, intensa per l’intero paese di Porto Empedocle, dove tutti si sentivano partecipi di un grande avvenimento . Sarebbero stati loro stessi, i concittadini che, come logica conseguenza, diventavano attori a pieno titolo di quel grandioso momento.

Una grande prestazione destinata a restare nella storia del Giro di Sicilia che l’anno successivo avrebbe purtroppo celebrato la sua ultima edizione di velocità (nel 1958, anche il Giro di Sicilia, all’indomani dei tragici fatti della Mille Miglia 1957, fu declassato a gara mista di regolarità alternata a prove di velocità. Meno fortunata fu la corsa dei “compaesani” con Montalbano e Tacci costretti al ritiro per noie meccaniche .

Quel duello fra Gendebien e Taruffi nell’ultima edizione del 1957

A vincere quell’ultima edizione di velocità del “Giro” fu il belga Olivier Gendebien che coprì gli oltre mille chilometri del tracciato alla media di 107,014 km/h in 10h 05′ 21”, rifilando a Piero Taruffi, soprannominato la “Volpe d’argento” per il colore dei suoi capelli, quel giorno al volante di una Maserati 300 S ben 15 minuti di distacco. Sul risultato hanno sicuramente pesato le condizioni del tempo con pioggia a tratti che rendeva insidioso il percorso; in quelle condizioni, la carrozzeria chiusa della berlinetta Ferrari 250 GT, più comoda o forse sarebbe più appropriato definire meno scomoda, costituiva di certo un vantaggio. Diverso era nelle sport con carrozzeria aperte dove il freddo della notte ti entrava fin nelle ossa. Gendebien aveva 33 anni, Taruffi già 50 e la sua Maserati barchetta lo metteva certo a dura prova, pur essendo un valente stradista (meno di un mese più tardi avrebbe vinto la Mille Miglia con la Ferrari 315 S, vettura non certo meno impegnativa della Maserati).

L’ingegnere romano aveva ben programmato la propria tabella di marcia, con rifornimenti di carburante lungo tutto il percorso. Nel tratto Palermo-Trapani-Agrigento, avendo rilevato un consumo superiore al previsto, pensò di fermarsi a Porto Empedocle per fare benzina lungo la strada e, all’ingresso del paese, intravvista una pompa, vi si accostò immediatamente. Guidava da solo senza compagno, con un salto balzò rapido fuori dalla sua Maserati, aprì il bocchettone del serbatoio gridando: «Benzina, benzina, super!». Purtroppo non c’era nessuno di servizio dato che era abitudine, durante la notte del passaggio dei concorrenti, organizzare una festa danzante nella vicina scuola elementare, festa che poi si protraeva sino all’alba.

Velocemente, si fa per dire, i minuti passavano rapidi e incalzanti. Con non poca difficoltà fu rintracciato il gestore che, di corsa, aprì gli sportelli e, come era uso a quel tempo, iniziò a rifornire benzina agendo con forza sulla leva di pompaggio a mano. Le pompe di benzina elettriche cominciavano a vedersi “sul continente” ma a Porto Empedocle non esistevano ancora. Fece quattro misure da cinque litri “manovellando” alla disperata, ma Taruffi aveva fretta. Spazientito, iniziò a imprecare, estrasse d’impeto la pistola dal bocchettone, chiuse lo sportello di botto, con un salto montò sul sedile e mise in moto dando sfogo a tutta la potenza della sua Maserati 300 S che partì alla volta di Agrigento dove il rifornimento era stato regolarmente programmato con la squadra. A causa di quello sfortunato episodio, la Volpe d’Argento perse minuti preziosi che non riuscì più a ricuperare giungendo secondo a Palermo alle spalle della Ferrari 250 GT di Oliver Gendebien, dalla quale accusò un ritardo di 15’33’’ circa, dovuto anche ad un’uscita di strada, senza gravi conseguenze, sul tratto Messina-Palermo, causato da un’anomalia alla scatola dello sterzo che lo tormentò per l’intero percorso.

Eppure, noi ragazzini, l’avevamo appena visto passare, impegnato in una serie di tornanti in discesa prima dell’ingresso in paese dove c’eravamo appostati per veder i migliori piloti in corsa.

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Arrivò forte, facendoci quasi spavento. Ce ne guardammo bene di metterci al riparo, sapevamo che Taruffi era uno che non sbagliava mai. Restammo fermi in quel punto a goderci quella serie di curve e tornanti in discesa con doppie cambiate, tacco-punta, sprazzi d’acceleratore, uno stridere costante di gomme e quell’odore inebriante che usciva dallo scarico. La macchina pareva saldata a terra, non scartò mai d’un millimetro. Taruffi sapeva come condurla “mettendola” dove voleva lui. Io ero all’esterno di quel tornante, m’ero preparato all’evento; mi abbassai e scattai una foto con una Comet a obiettivo fisso. A prima vista la foto dice poco, ma le sensazioni vissute in quel momento e fissate per sempre sulla pellicola sono ancora vive e colorite. Ogni volta che la guardo penso: «Anch’io ho visto passare Taruffi al Giro di Sicilia del 1957».

Sempre in quell’anno, nella Categoria Gran Turismo, classe 1300 cc, brillava un popolare siciliano di Sciacca, Pasquale Tacci che, in coppia con Taormina, portava la Giulietta Sprint Veloce con il n° 203 di gara alla vittoria nella sua classe e al 9° posto in classifica assoluta. Per la già famosa “Giulietta” Alfa Romeo, proseguiva così una brillante carriera di successi, primati ed eccellenti prestazioni per le strade e per le piste di tutto il mondo iniziata già da qualche tempo.

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Quell’ultima, malinconica edizione (1958)

L’ultima edizione del Giro di Sicilia, disputata su un percorso di 1072 km, fu inserita in calendario il 19-20 aprile 1958. Si trattò di una gara di regolarità mista, con prove speciali di velocità in salita. Chi vi prese parte e chi la vide come spettatore, ne ricorda il clima di profonda tristezza e rimpianto per le indimenticabili edizioni che l’avevano preceduta dando vita ad una storia unica ed irripetibile. A vincere quell’edizione che segnò la fine del glorioso Giro di Sicilia, fu la Dyna Panhard di Angelini Rota.

Importanza del Giro di Sicilia come mezzo di divulgazione dello sport automobilistico nell’isola.

Il terribile incidente che segnò la fine della Mille Miglia nel 1957, in cui, oltre ai piloti De Portago-Nelson, perirono diversi spettatori, oltre a sancire la fine della grande classica bresciana, segnò anche la fine delle corse su strada che tanta gloria avevano dato alla storia dell’automobilismo sportivo negli anni passati. A questa dura legge non sfuggì il Giro di Sicilia che, dopo l’edizione di “regolarità” del 1958, venne definitivamente cancellato.

Eppure, dopo 18 edizioni disputate fra il 1912 e il 1958, il seme era stato comunque gettato e aveva dato i suoi frutti in termini di conoscenza, approccio all’automobile, potenzialità nello sviluppo “dell’arcaica” società siciliana, uscita a pezzi, al pari dell’Italia, da una guerra disastrosa.

Proprio l’automobile era alla base di un rinnovato desiderio di libertà, di movimento, di conoscenza di nuovi spazi, territori, genti e culture che, al volante d’un mezzo a motore e quattro ruote, erano più vicine, magari non ancora a portata di mano, ma a portata d’automobile, certo sì.

Allo stesso modo era rinato lo Sport dell’automobile, basato sul valore dell’uomo, fosse esso il progettista, il costruttore, il meccanico specialista o il pilota. Ognuno di questi doveva eccellere nel proprio compito che era quello specifico d’azione. L’insieme, la risultanza di tutte queste eccellenze tecniche e umane era la vettura da corsa che trovava la definitiva sublimazione nella vittoria.

La gente, gli spettatori iniziarono ad essere “intenditori”, degli sportivi “conoscitori”, come e forse più di quelli del calcio. L’automobilismo non è mai stato uno sport di massa così come la passione del pubblico non è mai stato “semplicemente” tifo. Al pubblico delle corse si chiedeva di più: spostarsi, correre, resistere per ore ai bordi della strada imparando a riconoscere i motori dall’urlo, ad intuire le diverse vetture dalle loro sagome, a restituire un volto ai piloti dalla forma e dal colore del loro casco o “peggio”, dallo stile, perché di stile si trattava, della loro guida.

Il Giro di Sicilia s’infilò curioso e intrigante tra le strade di Sicilia, andando a toccare quasi ogni paese, percorrendo le strade con l’impeto d’un uragano, insinuandosi tra vecchie case, scuole, monumenti, templi greci, normanni, arabi, e portando con sé il vento del progresso, del moderno.

Certo il Nord aveva i grandi poli industriali dell’automobile, Torino su tutti, ma proprio grazie a quel “Giro”, anche la Sicilia divenne a suo modo trampolino di lancio dell’industria automobilistica nazionale ed internazionale. Nelle diciassette edizioni svolte fra il 1912 e il 1958, 46 anni scanditi da ben due guerre mondiali, si passò da vetture a carrozzeria scoperta con coefficienti di penetrazione aerodinamica pari ad un… muro, ad agili, filanti e veloci modelli sport così come altrettante berlinette che, più di tante parole, stavano a dimostrare il lungo, laborioso e prolifico cammino dell’industria automobilistica che si apprestava, fra l’altro, a dare il suo enorme contributo al “boom” imminente.

Ma le corse su strada potevano davvero finire in un modo tanto inglorioso pur in ragione della terribile sequenza di incidenti e lutti che avevano segnato l’automobilismo sportivo nella seconda metà degli anni Cinquanta?

Forse era possibile altrove ma certo, in Sicilia, era assai più improbabile. Nell’isola la gente aveva imparato a godere, a partecipare appieno a questi eventi, aveva ormai appreso a viverli intensamente, perché una corsa su strada senza una calca di spettatori, senza l’umanità della gente che assiste festante sarebbe come un grammofono che gira senza emettere suoni, un’orchestra senza direttore, una spiaggia senza mare e via di seguito.

In Sicilia c’era qualcuno che le corse le aveva nel sangue, le sognava di notte. Era Vincenzo Florio, geniale e intraprendente industriale, autentico mecenate, che una ne faceva e mille ne pensava. E infatti, con largo anticipo, aveva immaginato che le corse su strada aperta (e non in circuito), quelle corse che avevano caratterizzato l’epoca pionieristica dell’automobilismo sportivo, non avrebbero potuto durare. Era certo che, con il progresso, le auto sarebbero diventate più potenti e veloci. Anche per questo aveva immaginato una corsa che potesse stare nel mezzo: su strada sì ma sotto forma di circuito chiuso. Una…pista…su strada. In sostanza, un tracciato stradale da percorrere più volte secondo quel modello di gare viste in Francia in apertura di secolo, che tanto lo aveva suggestionato.

(scritto da Dino Caldarera)

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